lunedì 21 giugno 2010

NYC


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"One belongs to New York instantly,
one belongs to it as much in five minutes as in five years"

Mi sono sempre chiesto se Thomas Wolfe, uno dei padri della mia adorata beat generation, avesse ragione, se fosse vero che a New York si appartiene all’istante, che la città accoglie chiunque, da secoli, sia in cerca di qualcosa: della libertà, di una casa, di un sogno. Me lo sono domandato per molto tempo, fino a quando non ho visto di persona le sue luci, non ho camminato per le sue strade e sentito il suo cuore pulsare. Allora, solo allora, ho scoperto che è vero. Può succedere in cinque minuti come in cinque anni, ma arriva il tempo in cui New York ti prende con sé.
È accaduto anche a me, sul tetto del Top of the Rock, con lo sguardo perso in uno scarlatto tramonto d’ottobre sulla skyline di Manhattan: un attimo unico, indimenticabile, folgorante e commovente. Perché nel momento esatto in cui senti, per la prima volta, di appartenere a New York, da quel preciso istante, ti rendi conto che New York è parte di te. Indelebile. Per sempre.
Ero ancora bambino quando ho fatto di questa città la capitale del mio mondo, fondata sull’incontenibile fantasia dell’infanzia e poi, con lo scorrere del tempo, sui pensieri alati dell’adolescenza. Per anni l’ho desiderata, vagheggiata e aspettata, coltivandone il mito attraverso la musica, il cinema e la letteratura. Salinger, Bukowski, Auster, De Lillo, Kerouac, le loro parole potenti, libere, ispirate e ispiranti, mi hanno scolpito nell’anima la mappa della città e i contorni indelebili della leggenda. Sono rimasto rapito, contagiato e inesorabilmente condannato al desiderio di raggiungerla.
A lungo ho fantasticato sul momento del mio arrivo a New York. Cosa avrei visto? Quali pensieri? Soprattutto, quale sensazione? Ora lo so: è stata vertigine, una confusa e agitata vertigine. Niente a che vedere con l’altezza, però, con la verticalità da capogiro e che mozza il fiato, ma un senso di vuoto interiore, l’emozione incredibile di un sogno che, finalmente, si realizza.
Siamo atterrati all’aeroporto JFK all’ora di pranzo del 12 ottobre. Era il Columbus Day.
Il cielo era coperto, lo stesso morbido tono di grigio dell’oceano, unico panorama per buona parte del volo. Non mi pareva vero di essere arrivato, fremevo, sudavo ansia, quasi correvo lungo i corridoi del gate, mettendo a dura le prova le ruote del bagaglio a mano.
Il poliziotto della dogana sembrava quello dei Simpson, grasso, buffo, pochi capelli castani e l’aria annoiata. Io e Linda aspettavamo silenziosi nei ranghi della fila ordinata che gli addetti avevano disposto sotto la bandiera americana. Ad un suo cenno ci avvicinammo, insieme, con l’aria più convincente e rassicurante del nostro repertorio. Dopo le impronte digitali e le foto dell'iride, sotto lo sguardo vigile della sicurezza aeroportuale, cominciavamo a sentirci leggermente a disagio e il poliziotto se ne accorse. Aprì il mio passaporto, poi quello di Linda, ci squadrò, inarcando un sopracciglio e chiese: “Are you married?”. “Yes”, risposi, “just married”.
“Ahahah”, rise grossamente, “you’re welcome”. Così entrammo in America.
Colson Whitehead è nato a Brooklyn, ha la pelle nera, i dreadlocks, lo sguardo sempre assorto e un grande talento per la scrittura. Colson dice che “cominci a costruire la tua New York privata la prima volta che la vedi”. Io ho cominciato sul sedile posteriore di un furgone che ci stava portando all’Helmsley Hotel. Attraversavamo il Queens sull’Interstate 495, ai nostri lati scorreva la periferia della metropoli; case basse, recintate, povere, del tutto uguali a quelle che il cinema aveva impresso in qualche profondo strato del mio immaginario. Sulla destra un immenso cimitero, disordinato e decadente. Poi, all’orizzonte, come un tratto di vernice confusa sulla tela grigia del cielo apparve il profilo scintillante di Manhattan. Quell’immagine, quell’istantanea, così sfuocata allora e così nitida, oggi, nella memoria, è il primo mattone della mia New York privata.
Alla fine della sua corsa l’Interstate si tuffa sotto l’East River, verso l’isola. Mentre il furgone sgomitava nel traffico del Queens – Midtown Tunnel sentivo crescere la smania. Mi sembrava di essere un bambino al luna park, in coda per salire sulla giostra più bella e famosa. Cercavo la luce, gettavo lo sguardo più avanti, volevo arrivare, chiedevo New York e finalmente, quando tornammo in superficie, la trovai.
Ogni immagine, ogni momento, ogni vano tentativo di cogliere la cima dei palazzi, ogni scatto della città rubato al finestrino appannato era la definitiva ed esaltante conferma di essere dove volevamo, in quel preciso istante. Dopo qualche isolato il furgone svoltò a destra e ci depositò, carichi di bagagli e di speranze, di fronte all’albergo. 42nd Street, all’angolo con la 3th Avenue. Mi sembrava impossibile. Provai ad alzare la testa, a guardare all’insù, ma di nuovo non ci riuscii, questa volta non feci in tempo.
Un facchino, in livrea, ci prese in consegna e ci portò nella hall. Si chiamava Antonio e ci accompagnò fino in camera. Anche lui, ovviamente, era di origini italiane. “Where are you from?”, ci chiese. “Torino”. “Ahhhh, io di Bari”. Come se fossero vicine.
La camera era meravigliosa, una copia ancora fresca del New York Times era appoggiata sulla scrivania e fuori, oltre la finestra, le superfici dei palazzi riflettevano l’autunno e i suoi colori.
Dopo venti minuti eravamo già in strada e finalmente potei guardare verso l’alto. La prima cosa che vidi, maestoso, di fronte a me, fu il Chrysler Building. Restai sorpreso, sbalordito, non me lo aspettavo. Fissai negli occhi le aquile d’acciaio che si proiettano verso l’orizzonte dalla base della cuspide, quegli occhi da rapaci d’argento, splendenti, saettanti.
Fu l’ultima cosa che feci, l’ultimo gesto lucido e consapevole, prima di lasciarmi trasportare dalla corrente impetuosa per le strade di Manhattan. Un flusso travolgente, costante, inarrestabile. Acciaio, cemento, cristallo, ferro, marmo. Luci al neon, semafori, insegne luminose, pubblicità. Bianco e nero, colori caldi, freddi, confusi, avvolgenti. Stelle, strisce. Oltre i vetri uffici, appartamenti, negozi. Taxi, biciclette, limousine, skateboard, pattini, school bus, scarpe da ginnastica e tacchi a spillo. Musica diffusa, clacson, parole gridate e sussurrate, martelli pneumatici, sirene della polizia, l’incessante borbottio baritonale della città di sottofondo, il suo respiro sotterraneo. Canyon di grattacieli, senza fine, sempre più in alto. Il chiarore pallido del fumo che esce dai tombini, la malinconica solitudine delle cisterne per l’acqua sui tetti, il sapore metropolitano degli hot dog dei carretti lungo la strada. E poi la gente, quanta gente. Turisti, newyorkesi, ospiti e conquistatori. Centinaia, migliaia. Milioni di storie da immaginare, ascoltare, raccontare. New York.
Quando ci fermammo, dove la Quinta Strada incontra Central Park, sul bordo della Pulitzer Fountain, di fronte al Plaza, eravamo stanchi, felici e stremati. Mi guardavo intorno e non riuscivo a crederci, cercavo lucidità, consapevolezza, ma facevo fatica, ero annebbiato, confuso, ebbro, stordito. Un vento freddo saliva dall’oceano e spazzava l’aria, le nuvole si allungavano e lasciavano spazio al cielo sfumato ocra del tardo pomeriggio. Decidemmo di andare a guardare il tramonto dall’alto, volevamo andare in cima, sopra tutti.
La pista di pattinaggio del Rockfeller Center era affollata, i bambini cadevano, le donne volteggiavano, gli uomini contemplavano ammirati. Un tipo magro, con i capelli grigi raccolti da una bandana, ballava una musica tutta sua tra le risate degli spettatori.
Attraversammo il grande atrio di marmi scuri del Top of the Rock, verso l’ascensore che ci avrebbe portati al sessantasettesimo piano. Trenta secondi di propulsione, un razzo che sale nelle viscere dell’edificio, le porte che si aprono sul vuoto.
Fuori, sulla terrazza del settantesimo piano, a duecentosessanta metri dalla strada, con l’aria fredda sul viso, ogni confusione svanì, lasciando il posto al buon sapore amaro di una malcelata commozione ed alla pura meraviglia.
L’Empire State Building, l’East River e l’Hudson ad abbracciare l’isola, Chelsea, Soho, il Village, Chinatown, Little Italy, fino a Downtown, fino al Battery Park, fino alla punta. La linea anarchica di Broadway, le luci di Times Square. Brooklyn, oltre l’acqua, il suo famoso ponte. Il New Jersey, dall’altra parte, Staten Island. E in mezzo, il profilo inconfondibile della Statua della Libertà. A nord il parco, gli alberi, il lago, i musei, l’eleganza di Uptown, Harlem e il Bronx, laggiù, lontano.
Di fronte a noi New York era il centro del mondo, la città che avevo sempre sognato.

Qualche ora più tardi, seduti nella luce soffusa di Langan’s, un pub sulla 47th, dalle parti di Times Square, raccoglievamo nel cassetto della memoria le immagini di una giornata irripetibile.
Qualcuno beveva birra al bancone, gli schermi appesi alle pareti trasmettevano la partita degli Yankees. Fuori dalle vetrate si intuivano le luci della strada. Il cameriere venne a portare via i piatti. Aveva una camicia bianca, le bretelle, il grembiule legato sui pantaloni e gli occhi simpatici. Quando vide che non avevo finito le patatine fritte che guarnivano la bistecca mi guardò con aria interrogativa e una smorfia incuriosita sul viso.
Avevamo mangiato tantissimo, di fame e golosità. Ogni portata era enorme, doppia, gigante. E aspettavamo ancora i dolci.
Toccato nell’orgoglio, provai a giustificarmi: “It,s too much”, gli dissi.
Con i piatti in mano e un sorriso gentile sulle labbra, il cameriere ci regalò un’alzata di spalle e una risposta che non ho mai dimenticato:
“That’s New York, guys…that’s New York”.


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